C’era una volta un uomo di nome Dario. Aveva gli occhi turchesi, l’aria pensierosa ed era di poche parole. Veniva da una famiglia povera.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale era troppo giovane per essere mandato al fronte, ma combatteva a modo suo, cacciando piccioni con la fionda e rubando legname per aiutare la sua famiglia a sopravvivere. Dopo l’armistizio di Badoglio aveva diciassette anni: un’età sufficiente per essere reclutato dai nazisti e mandato a scavare trincee per qualche mese, con un rancio da fame, un’igiene scarsissima e una buona dose di percosse. Al suo ritorno scoprì che sua sorella era morta di tifo, e lui non aveva potuto salutarla. Dovettero farlo sedere in una tinozza di aceto con tutti i vestiti, per eliminare la sporcizia e i pidocchi.
Dopo la fine della guerra trovò subito lavoro come carpentiere, e col trascorrere del tempo continuò ad imparare a lavorare il legno, a guidare e riparare macchine industriali, a costruire muri e case, ad aggiustare qualunque cosa. Divenne un tuttofare, e gli imprenditori di Trieste si contendevano le sue prestazioni.
Era uno scavezzacollo: quando venne costruito il ponte di Soncini, nessuno aveva il coraggio di collaudarlo poiché c’erano dubbi sulla sicurezza del progetto. Dario ci passò sopra con una betoniera.
Con il denaro guadagnato grazie al suo lavoro mise su famiglia, sposando una bella ragazza più giovane di lui e crescendo una figlia, che a sua volta si sposò ed ebbe un figlio.
Il nipote di Dario era capriccioso e impertinente, ma lui lo sopportava pazientemente. Gli insegnò la dama e vari giochi di carte, gli mostrò dove trovare gli asparagi e le more selvatiche sul Carso, e tutti i posti tranquilli dove poter andare al mare al riparo dal chiasso. Gli regalò un binocolo, e si divertiva a dirgli: “Alle cinque prendi il binocolo e guarda fuori dal balcone!”. Quando suo nipote guardava attraverso il binocolo, vedeva il nonno salutarlo in lontananza, in piedi su una gru.
Era un uomo buono e generoso, ma la natura non lo fu altrettanto con lui: quando la vecchiaia sopraggiunse, la sua agonia durò un anno e mezzo durante il quale suo nipote si chiuse in casa e trascorse quasi tutto il tempo davanti a un computer, senza voler vedere più nessuno.
Era un ragazzo timido, e non ebbe mai il coraggio di domandargli “Come stai?” o di dire cose come “Grazie”, “Ti voglio bene”, “Sono qui con te”. Nemmeno quando Dario era ormai in procinto di tornare tra gli angeli.
E ci ripenso ancora oggi, tutte le volte che passo davanti a un muro, un ponte o qualche altra struttura costruita da lui, perché sono ancora tutte in piedi a distanza di decenni. E mi dico che, se non ho avuto il coraggio di dirglielo, allora è proprio questa l’ultima cosa che mio nonno mi ha insegnato: amare.
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